«Una battuta che il ragazzo non ha capito». Con questa
“pezza” si giustifica il maestro della fotografia Oliviero Toscani nei
confronti della risposta – «No, perché sei un potenziale mafioso» - data ad uno
studente vibonese che gli chiedeva di fare un “selfie” all’inaugurazione della mostra
fotografica allestita alla Camera di commercio. Magari sarà stata, quella di
Toscani, realmente una battuta. Infelice, ma battuta. O, forse, lo avrà anche
offeso due volte lo studente, e con esso gran parte dei calabresi, dandogli dell’ignorante,
scarsamente dotato di senso dell’umorismo, oltre che del potenziale mafioso. L’impressione,
a pelle, è che quella di Toscani, stavolta, sia stata una fotografia venuta
male. Una fotografia che, ancora una volta, riproduce una realtà territoriale,
quella meridionale, nello specifico calabrese, in modo distorto. Una fotografia,
come purtroppo spesso accade, scattata guardando da un angolo visuale non
completamente includente, che è quello generalizzante. Perché, nessuno lo può
negare: la Calabria ha certamente i suoi bei problemi, a volte atavici, come quello
della mafia, dello scarso sviluppo infinito, della povertà, della mancanza di
lavoro. Ma questo non può, e non deve, indurre a fare un fascio di tutta l’erba.
Si può essere contrari a certe pratiche prevalentemente giovanili, come è
quella di farsi i “selfie”. Ma non si può riprodurre il meridionale, ed il
calabrese, sempre come sudicio, sporco, lercio e mafioso. E la riprova che si
sia trattato di questo, e non di (inutile) sarcasmo, sta nella risposta ad una
domanda che pongo: avrebbe, il maestro Toscani, reagito allo stesso modo,
opponendo un rifiuto con la “battuta” del potenziale mafioso, alla medesima
richiesta avanzatagli, magari, da uno studente milanese? Ognuno esprima l’opinione
che meglio ritiene. A me è venuto subito in mente quel triste episodio narrato
dal grande Leonida Repaci del povero contadino calabrese trovatosi a Milano a
dover pagare il biglietto del treno con una banconota tutta stropicciata e
sbiadita: il tranviere la rifiutò, come se si trattasse di un qualche mezzo
di trasmissione di chissà quale tremenda malattia infettiva. Andando oltre,
poi, la storia è piena di fotografie distorte. Di queste “battute” che si
faticano a capire. “Battuta” scarsamente comprensibile, ad esempio, sebbene
puntualmente smentita e trasformata in bufala, fu quella di Vasco Rossi, che
una volta etichettò il sud come un cesso e disse che ci viene a suonare perché ogni
tanto al cesso bisogna pure andarci. Ancora più tremenda, forse, fu quella di
Antonello Venditti, che qualche anno addietro, ad un concerto tenuto a Marsala,
in Sicilia, disse che in Calabria non c’è nulla, chiedendosi, allora, le
ragioni per cui Dio l’avesse creata. Anche lui smentì, affermando che non sarebbe
stato capito il senso delle sue parole. Perché, è bene ricordarlo, i calabresi,
oltre che mafiosi, siamo anche imbecilli. Ancora più recentemente, indi, è
stato Roberto Vecchioni, che, in una lezione tenuta in una facoltà
universitaria palermitana, etichettò la Sicilia (stavolta) come “un isola di
merda”. Se la cavò meglio con le scuse, perché seppe dare una spiegazione più
convincente sul significato della sua affermazione. Andando più indietro negli
anni, si scopre che lo scrittore inglese Brian Glanville riportò in un suo libro
che «la Calabria è un paese di semiselvaggi, dove si è circondati di gente
infida e pericolosa». Questa evidentemente non sarà stata una battuta. Cambiando
ambito, ed allargando lo sguardo al meridione nella sua interezza, è di questo
mese la notizia secondo cui in Inghilterra, in determinate circoscrizioni
scolastiche, è stato chiesto a degli studenti originari del nostro paese di
specificare se fossero italiani, napoletani o siciliani. Perché, è notorio, c’è
differenza ad essere meridionali, in genere, “invece” che italiani. Prendiamo
anche questa come “battuta”. Una “battuta” venuta male o non capita. Ma, no,
non è vero che non capiamo le battute. È vero, invece, che la Calabria è soprattutto
altro: è il paese di due milioni di abitanti che Leonida Repaci, nel suo libro,
“Calabria grande e amara”, immaginò creato da Dio come un capolavoro da quei «15
mila chilometri quadrati di argilla verde con riflessi viola», donando a
ciascuna città una sua propria specificità e creando una terra «più bella della California e delle Hawaii, della Costa Azzurra e degli arcipelaghi giapponesi». Diede, Dio alla Calabria, stagioni sempre con il sole «madri tenere, mogli coraggiose, figlie contegnose, figli immaginosi, uomini autorevoli, vecchi rispettati, mendicanti protetti, infelici aiutati, persone fiere, leali, socievoli e ospitali». E poi, non ancora
soddisfatto, Dio «volle il mare sempre viola, la rosa sbocciante a dicembre, il cielo terso, le campagne fertili, le messi pingui, l'acqua abbondante, il clima mite, il profumo delle erbe inebriante». Ecco perché le
“battute", spesso, non le capiamo. Ecco perché sarebbe ora di iniziare ad essere
stufi di essere considerati imbecilli, e privi di humour, oltre che mafiosi,
beceri e sporchi. Perché è vero: la Calabria, il sud, ne hanno di problemi, e
tanti. Ma sbagliato è guardarli ed etichettarli, e con essi chi ci vive, solo
per questi. È sbagliato osservarli e fotografarli da quell’angolo restrittivo e
generalizzante: lo stesso, per essere più chiari, da cui si guarda all’Italia vedendone
solo pizza, spaghetti e mandolino.
"Non buttare via il tuo tempo o il tempo butterà via te."
domenica 23 ottobre 2016
sabato 15 ottobre 2016
Ecco perché voto ed invito a votare SI al referendum costituzionale del 4 dicembre
Il prossimo 4 dicembre saremo chiamati a
concorrere alla realizzazione di un evento epocale inseguito invano da decenni:
la riforma della nostra costituzione. “La più bella del mondo”, come l’ha
definita Roberto Benigni.
Sicuramente lo è stata quando è nata, come
perfetto compromesso tra le forze politiche di diversa estrazione chiamate a
risollevare le sorti di un paese distrutto da vent’anni di dittatura, dal
conflitto mondiale e da una fratricida guerra civile, in un mondo che era
diviso in due blocchi i quali, anche in Italia, si guardavano con astio e
diffidenza.
Si veniva fuori da un periodo buio ed i
padri costituenti hanno dovuto adottare tutti gli accorgimenti possibili per
mantenere un solido equilibrio tra due diverse e distanti visioni
dell’assetto sociale e, allo stesso tempo, per impedire altri funesti colpi di
mano. In questo contesto geopolitico globale hanno dato
alla carta fondamentale del nostro paese un impostazione di mediazione, con la
previsione di un iter legislativo volutamente lento, per meglio valutare i
testi normativi che si andavano ad approvare.
Lo è stata, la più bella del mondo, certamente anche per molti
anni successivamente alla sua stesura.
Lo è ancora in molte sue componenti,
come la prima parte, dedicata ai principi fondamentali, talmente validi ed
ancora attuali che nessuno si sognerebbe di metterli in discussione.
Però, come accade anche con la più
affascinante delle miss col tempo, pur sussistendo ancora molte singolarità
certamente uniche ed apprezzabili nella personalità e nelle sembianze, la
bellezza col passare degli anni sfuma. Perché il tempo, com’è giusto che sia, cambia,
a volte, stravolge le cose: le modifica, le altera, le trasforma. O, più
semplicemente, fornisce altri canoni da cui partire per valutare i parametri
della bellezza.
Ed il tempo attuale dice che in molti punti
la costituzione è superata e va rivista, perché vi sono nuovi parametri ed
esigenze di stabilità cui far riferimento ed occorre una maggiore rapidità
d’azione, in un mondo globalizzato che corre veloce e cambia senza nemmeno a
volte farcene accorgere nell’immediatezza.
L’attuale situazione politica in Italia
è quella di un deleterio ingessamento istituzionale, da attribuire in gran
parte al bicameralismo paritario, che impedisce un rapido iter legislativo.
Quella che andremo ad approvare non è
sicuramente la migliore delle riforme possibili, ma, altrettanto certamente, è
un passo avanti per un paese più moderno e proiettato verso il futuro ed ha
molti punti di forza che necessariamente devono indurre a votare SI.
Ecco perché, senza indugi, bisogna
farlo:
·
SI riforma il bicameralismo paritario -
la
riforma punta in prima battuta ad eliminare la lentezza nell’iter di
approvazione delle leggi, prevedendo un Senato delle autonomie locali che, come
avviene ora, concorrerà solo nell’approvazione di determinate leggi importanti,
mentre per tutte le altre, che saranno di competenza della Camera dei Deputati,
il nuovo Senato avrà 10 giorni per richiedere un esame e, se ciò avviene, altri
30 giorni per proporre delle modifiche, su cui la Camera, comunque, avrà la
facoltà di pronunciarsi in via definitiva;
·
SI dà maggiore
stabilità ai governi –
Spesso,
nella situazione di parità dei due rami del parlamento, accade che al Senato vi
sia una maggioranza ed alla Camera un’altra, ciò che determina una instabilità
governativa congenita che ha fatto sì, ad esempio, che negli ultimi 10 anni si
succedessero ben 6 governi, contro i normali due che sarebbero stati necessari.
Con la riforma la fiducia la può dare e togliere solo la Camera;
·
SI riduce il
numero di senatori –
il
numero dei senatori passa dagli attuali 315 a 100, che non percepiranno
indennità, con un notevole risparmio per le casse dello stato;
·
SI aboliscono il
Cnel e le provincie –
il
risparmio per le casse statali arriverà anche dall’abolizione delle provincie,
che per come sono state ridotte non hanno ragione d’essere se non quella di
perpetrare l’abbandono di interi territori, e del Cnel, inutile carrozzone
senza alcuna funzione utile se non quella di piazzare personalità di varia
estrazione in una posizione di prestigio di cui fregiare il pennacchio;
·
SI pone fine all’abuso ed alla forzatura dei
decreti legge –
l’ingessatura
dell’attuale sistema induce spesso i governi a far ricorso al più rapido
strumento del Decreto legge, che può essere approvato in un tempo massimo di 60
giorni. L’abolizione del bicameralismo paritario, con la possibilità di
approvare in modo estremamente rapido le leggi, rende inutile il ricorso ai
Decreti, per i quali, in ogni caso, con la riforma è previsto un maggior
controllo da parte del Presidente delle Repubblica, il quale, per valutarne più
attentamente la validità, avrà a disposizione 90 giorni, contro gli attuali 60.
I decreti legge, inoltre, dovranno contenere misure immediatamente applicabili,
tali da giustificarne l’approvazione;
·
SI elimina la facoltà legislativa delle
regioni in materie di interesse nazionale –
la
riforma toglie alle regioni la possibilità di legiferare in materie che hanno valenza
nazionale, sopprimendo una quantità assurda di contenziosi che determinano
sprechi in tempo e danaro. Ciò, comunque, non significa indebolire la potestà
delle regioni, che potranno far sentire la propria voce e far valere le proprie
ragioni nel Senato, il quale, appunto, viene trasformato nella camera delle
autonomie locali;
·
SI instaura una nuova forma di controllo
sull’approvazione delle leggi elettorali –
è
previsto che una minoranza di parlamentari possa richiedere la verifica
costituzionale di tali importanti norme;
·
SI
incrementa la democrazia diretta –
con
l’introduzione dell’obbligo per il parlamento di discutere le proposte di legge
d’iniziativa popolare (una misura importantissima tendente ad evitare che tali
proposte cadano nel dimenticatoio, anche se si estende da 50 a 150 mila il
numero di firme da raccogliere per poterle presentare), l’istituzione del
referendum propositivo e la modifica del quorum per quello abrogativo (in linea generale rimane il quorum del 50% +1 degli aventi diritto per la validità del referendum, ma se a proporre il quesito sono almeno 800 mila firmatari, tale quorum si abbassa alla metà più uno dei votanti alle ultime elezioni per la Camera);
·
SI vota per il futuro del paese
il
punto da tenere fermo andando a votare per il SI è che tale voto lo si esprime
per il futuro dell’Italia, non a favore o contro un governo o a favore o contro
un presidente del consiglio. Questi passeranno comunque. L’Italia, che è
qualcosa di ben più importante, rimane e deve correre al passo con le altre
nazioni.
Questi sono solo alcuni dei motivi, i
più rilevanti, per cui è necessario votare per il SI, nella convinzione che
quello che si sta andando a realizzare è un cambiamento storico, che, come
tutti i cambiamenti storici – vedi la scelta tra monarchia e Repubblica o il divorzio
– dividono l’opinione pubblica. Per tali riforme sarebbe sempre auspicabile il
coinvolgimento delle più ampie maggioranze. Ma se non esiste questa unità
d’intenti, e vi sono necessità superiori ed impellenti, non si può, come spesso
si fa, accusare l’attuale formazione di governo parlamentare di fare le riforme
costituzionali a colpi di maggioranza assoluta: non si tratta di un’usurpazione
ma di quanto prevede l’articolo 138 della nostra carta fondamentale.
Per
tutte queste ragioni io voto, ed invito a votare, SI. Perché la nostra
costituzione deve tornare ad essere la più bella del mondo. E perché con questo
voto dobbiamo essere in grado di dimostrare che il Paese è all’altezza di
affrontare e reggere i cambiamenti, sia a livello nazionale che globale e di
Unione europea, che richiedono istituzioni e procedure più stabili,
semplificate, rapide ed efficaci.
Io
voto, ed invito a votare SI, perché ho a cuore il futuro dell’ITALIA
giovedì 13 ottobre 2016
10.000 e 25 volte grazie
Comunicare per condividere le proprie
idee con gli altri, provando a suscitare riflessione, discussione e dibattito
sui temi e sui personaggi più svariati, è un’attività che mi ha sempre
stuzzicato, sia come semplice cittadino che come servitore della cosa pubblica.
Per questo tempo addietro mi sono lanciato nell’avventura di questo blog,
inteso come contenitore di idee, propositi e proposte senza alcuna pretesa se
non quella esposta in premessa. Non pretendevo e non pretendo che le mie idee
siano condivise da tutti ma mi piace pensare che inducano interesse e
curiosità. Lo splendido risultato di oltre 10.000 visite mi spinge a dedurre
che questo intento sia stato in parte raggiunto, mi lusinga e mi convince che
quella del blog sia stata una buona idea e mi stimola a continuare a
trasmettere agli altri le mie riflessioni, come spunto per promuovere l’interazione
e lo scambio di vedute. La parola se promossa, stimolata, aiutata, diffusa,
sostenuta, incoraggiata, pungolata ma anche controbattuta, ribattuta e
confutata, dove serve, è uno strumento meraviglioso che può concorrere a
cambiare il mondo. Anche io cerco di dare il mio contributo e vi ringrazio per
essere stati presenti in molti, dal più distratto al più attento, dal più critico
a colui il quale ha maggiormente condiviso, passando per il più interessato
agli argomenti e per colui al quale non gliene è fregato di meno: 10.000 e 25
grazie sperando, in ogni caso, di aver stimolato considerazioni, opportunità di
confronto e anche critiche, che se costruttive possono avere anch’esse utilità.
domenica 9 ottobre 2016
Nel giorno dell’anniversario dalla morte di Che Guevara, simbolo di una rivoluzione ancora attuale
Quarantanove anni fa, come oggi, ucciso da militari
colombiani moriva Ernesto Che Guevara, uomo universalmente assunto a simbolo
della rivoluzione, il quale, dopo aver visto la miseria e la povertà di molti paesi
dell’America latina, decise di sposare la causa degli oppressi e di combattere ogni
forma di diseguaglianza sociale attraverso la lotta rivoluzionaria. Oggi il Che
è quasi una leggenda, un mito che va di moda, da indossare su una maglietta
rossa o far sventolare impresso su una bandiera. Ma Guevara non è questo, non è
una moda: egli è stato, ed è ancora, la rivoluzione. L’idea della rivoluzione
attraverso cui si può arrivare all'eguaglianza ed al cambiamento. Ed è il Che
rivoluzionario che mi piace ricordare oggi, nell'idea di una rivoluzione forte
ed ancora attuale ai tempi odierni, da intendersi come azione che ognuno al
mondo deve condurre quotidianamente per cambiare le cose e cambiarle in meglio.
Il suo ricordo ed il suo esempio servono a farci riflettere sull'importanza che
ha per ogni individuo essere rivoluzionario. Rivoluzionario non attraverso la
violenza. Non attraverso la sopraffazione. E neppure attraverso la prepotenza
fisica, l’arroganza intellettuale o la superbia morale. Se rivoluzione equivale
a cambiamento questo lo si può raggiungere attraverso la novità nelle idee, il
modo di pensare e di agire, l’essere audacemente visionari in un contesto ostile
che tende a rimanere fermo nella sua perseverante sedimentazione. Essere rivoluzionari,
oggi, significa aprirsi alla cultura ed all'istruzione, da cui trarre l’insegnamento
che cambiare si può. Significa dialogare ed ascoltare, confrontandosi
attraverso l’esposizione delle proprie tesi, l’ascolto delle antitesi ed il
raggiungimento di una certa sintesi. Essere rivoluzionari oggi significa compiere
pratiche produttive indirizzate al bene comune e moralmente oneste e cercare, attraverso
esse, di porsi da positivo esempio agli altri. Significa promuovere la sinergia
tra tutti gli attori sociali, vero carburante del mutamento civile, morale e
materiale. Significa rispetto della legalità, perchè solo una società in cui si
osservano le regole sarà una società sana, viva e produttiva. Significa che
ognuno deve agire nel suo ed aver sete di cambiamento. Un cambiamento che porti
benessere per tutti. Sono certo che nel mondo di oggi anche Ernesto Che Guevara
sarebbe stato rivoluzionario in tal senso. Ed è per questo che mi piace
ricordarne la figura. È per questo che invito tutti, oggi, ad essere dei rivoluzionari.
sabato 1 ottobre 2016
Una grande speranza per i piccoli centri e per Gerocarne
Sono
5585 e vi vivono oltre 10 milioni di italiani. Sono i piccoli centri con una
popolazione fino a 5000 abitanti: realtà con enormi potenzialità spesso
nascoste che rappresentano l’ossatura del paese e per questo non possono e non
devono scomparire. Non possono e non devono scomparire perché sono custodi di
storie e tradizioni millenarie. Non possono e non devono scomparire perché da
essi dipende in gran parte la cura e la tutela di gran parte, più della metà,
del territorio nazionale (solo in provincia di Vibo i comuni con meno di 5000
abitanti sono 44 su 50). In questa direzione, finalmente, dopo anni di quasi
totale immobile ed ignobile menefreghismo, si muove il disegno di legge
approvato unanimemente nei giorni scorsi alla Camera dei Deputati, ed ora in attesa
di essere esaminato dal Senato. Contiene le “Misure
per il sostegno e la valorizzazione dei Comuni con popolazione fino a 5.000
abitanti e dei territori montani e rurali, nonché disposizioni per la
riqualificazione e il recupero dei centri storici”. Relatore è stato l’Onorevole
Enrico Borghi, presidente nazionale Uncem (Unione nazionale comuni, comunità,
enti montani), che da anni lavora a questo progetto di legge. Un provvedimento che
si pone in controtendenza con l’atteggiamento totalmente incurante cui si è
assistito negli ultimi anni verso le piccole realtà, lasciate al loro amaro
destino nella vergognosa attesa che si auto estinguessero. Per evitare questo
la legge prevede tante valide misure, con l’aggiunta di uno stanziamento
massimo di 100 milioni di euro, da erogare tra il 2017 e il 2023, per il
sostegno agli investimenti pubblici, attraverso cui lo Stato punta a concorrere
al finanziamento di progetti di sviluppo locali, indicando i campi progettuali ed
agevolando la capacità di coinvolgere altri capitali pubblici e privati.
Tra le principali novità che la legge
prevede ci sono:
– l’istituzione di centri multifunzionali atti
a fornire servizi in materia ambientale, sociale, energetica, scolastica,
postale, artigianale, turistica, commerciale, di comunicazione e sicurezza;
– lo stanziamento di 10 milioni di euro
per il 2017 e 15 milioni di euro per ciascuno degli anni dal 2018 al 2023,
destinati a finanziare interventi di tutela dell’ambiente e dei beni culturali,
mitigazione del rischio idrogeologico, messa in sicurezza delle scuole, acquisizione
delle case cantoniere e ferrovie disabitate per realizzare circuiti turistici e
promuovere la vendita di prodotti locali;
– il riconoscimento di attori principali
ai piccoli comuni nello sviluppo socio-economico del territorio, da esercitarsi
in forma associata con altri Comuni;
– il consumo e la commercializzazione dei beni
agroalimentari provenienti da filiera corta a chilometro utile (quelli prodotti
e trasformati a una distanza non superiore a 50 chilometri dal luogo di vendita
e in assenza di intermediari commerciali).
– agevolazioni nella rete dei trasporti pubblici, finalizzati
al collegamento tra i comuni delle aree rurali e montane, e con i comuni
capoluogo di provincia e regione;
– recupero e riqualificazione dei centri
storici, con la creazione di alberghi diffusi e promuovendo l’efficientamento
energetico e la prevenzione antisismica.
Una
vera e propria rivoluzione copernicana, attesa e agognata, che interviene sullo
SOS lanciato da tanti paesini che non intendono rassegnarsi alla morte. La speranza,
ora, è che il Senato, cui è demandata l’ultima analisi, e la definitiva
approvazione del disegno di legge, faccia presto: ci sono tanti piccoli centri
desiderosi di mostrare la loro grande valenza che non possono più aspettare.
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